Blog | 28 Agosto 2015 | Fabio Ciarla

Il vino dei Castelli è morto. E anche il Frascati non si sente tanto bene…

La vendemmia concentra fatica e aspettative, ma anche le polemiche e le speculazioni sui prezzi delle uve

Titolo provocatorio, scherzoso in particolare per il Frascati, ma non fuori contesto. Spulcio su Il Messaggero del 22 agosto (Area Metropolitana) l’articolo del decano dell’agroalimentare dei Castelli e leggo “Per il vino arriva un’annata boom” e, subito sotto, “Produttori entusiasti per la qualità e l’abbondanza del frutto favorito dal clima ideale e dall’assenza di attacchi parassitari” ma poi anche “La gran quantità di materia prima pone il problema del prezzo «che difficilmente potrà superare i 30 euro al quintale del 2014»”. Ora, ditemi voi cosa c’è da gioire per la buona annata se i prezzi per uve più sane e ricche non aumentano, vi prego aiutatemi a capire!

Forse sono io che non ci arrivo ma se le uve sono più sane e ricche dello scorso anno non dovrebbero “valere” di più? L’annata buona dovrebbe rendere di più perché c’è più qualità e i vini saranno più longevi o comunque più ricchi, insomma in una parola “migliori”, e non perché l’uva è di più. O sbaglio? Forse dobbiamo rispolverare il vecchio adagio secondo il quale la maggiore qualità sta nella minore quantità. È un assioma trito e ritrito, ma che evidentemente non convince un territorio come il nostro, dove l’agricoltore è spinto a produrre il più possibile anche perché tanto ogni anno percepisce più o meno la stessa cifra. A quanto pare infatti se si produce poco e male perché la stagione è stata negativa (come il 2014) allora ti pagano un po’ di più le uve, se invece l’annata è stata buona e produci di più te le pagano meno (come, forse, il 2015). Praticamente il contrario di quanto sarebbe logico e, anzi, alla fine il conto è uguale, e torniamo al concetto di base: finché si produce secondo remunerazione immediata saranno sempre i padroni dei grandi numeri a decidere. Realtà che acquistano centinaia di migliaia di quintali di uva di qualsiasi qualità e che, quindi, stabiliscono il prezzo in base alle loro esigenze di imbottigliamento. Se continua così, e purtroppo gli esempi dei vari fallimenti delle cooperative del Lazio non hanno insegnato nulla, il vino dei Castelli Romani non può che morire. Schiacciato dal Tavernello e dal Nuovo Mondo, che produce quantità di vino ben maggiori delle nostre, qualitativamente simili e a prezzi concorrenziali. Anzi, non c’è neanche bisogno di andare così lontano visto che Al Bano Carrisi porta nella grande distribuzione i suoi vini di Puglia a meno di 2 euro la bottiglia.

In tutto questo non mancano, è vero, vecchie cattive abitudini da parte di chi ha il potere di decidere i prezzi. Leggevo qualche settimana fa sui social media un’accusa precisa a quei grandi imbottigliatori che regolarmente mantengono in magazzino alte scorte di vino fino al 30 giugno, al momento cioè di certificare le quantità di invenduto, per poter fare pressione sui prezzi della vendemmia a settembre, salvo poi dare libero sfogo alla distribuzione dal 1 luglio. Trucchi, artifici contabili da ragioniere più che da capitano di industria, ma tant’è e non capita solo ai Castelli Romani. Il problema è che qui non c’è molto altro, manca il tessuto di piccoli e medi produttori capaci di fare reddito che invece in altre zone del Lazio si sta affermando (vedi Cesanese o Tuscia). L’unica zona dove sembra invertirsi la tendenza è il Frascati, che dopo l’ottenimento della DOCG vuole continuare a crescere, come testimoniano i 39 ettari vitati in più della denominazione e la nascita di 4 nuove aziende. Anche qui la battaglia sui prezzi minimi delle uve è feroce, partiamo già da altre cifre ovvero i 45 euro dello scorso anno, che si sta cercando di confermare visto che rispetto al 2012 comunque l’aumento è stato di circa il 60%. Si tratta di un percorso a ostacoli dove, appunto, la presenza di un congruo numero di produttori medio-piccoli, con alcune realtà di assoluto pregio, riesce in parte a fare da contraltare ai big del territorio. E non vedo altre soluzioni per un sistema minato alle fondamenta da anni di scelte sbagliate, produttive innanzitutto, politiche in seconda battuta e commerciali in ultimo. Per non parlare della comunicazione, ma questo è un altro discorso…

La lotta tra chi mira al guadagno sui grandi numeri, pur slegando la propria immagine dal territorio e addirittura dalla regione, e chi invece si impegna quotidianamente per far crescere qualità e immagine della propria terra a Frascati sta cominciando a portare frutto. È notizia di questi giorni infatti che i Castelli Romani sarebbero “la nuova frontiera degli investimenti” per chi intende guadagnare dall’apprezzamento delle zone di produzione vinicola. Lo studio è del Monte dei Paschi di Siena, banca che con il vino ci sa fare (con i soldi un po’ meno ma lasciamo stare), che ha individuato questo territorio “storicamente caro agli stranieri, americani in testa, per i vinelli pronti da beva, come il Marino e il Frascati” come la terra da vino migliore subito dopo la Toscana per possibilità di sviluppo. La notizia arriva nell’ambito del focus che Repubblica ha intitolato “Chi compra un vigneto trova un tesoro”, secondo il quale i terreni impegnati in produzioni vinicole di qualità si sono rivalutati negli anni più di qualsiasi altra coltivazione terriera. Ottimo, grandioso, festeggiamo! Poi vai a vedere i dettagli e leggi che in realtà a decretare il prezzo dei vigneti è il valore delle produzioni, si tratta insomma di una scommessa sulle capacità di crescere delle etichette in funzione di vendite e guadagni. Al momento pare difficile quindi sperare che si arrivi ai 750mila euro di un ettaro in uno dei cru di Barolo, ma anche i 450mila di un ettaro pregiato di Brunello sembrano lontani, così come i 405mila di un ettaro nella zona del Prosecco. Di strada da fare anche a Frascati ce n’è tanta e soprattutto non si devono sporcare gli sforzi fatti per la crescita di immagine e qualitativa per guadagni di scarsa lungimiranza. Dicono ancora gli studiosi di MPS: “Non basta una generica qualità del prodotto. E’ la vocazione di prestigio a incidere sul valore dei terreni”. Ecco, non basta solo fare buoni vini, ci vuole anche la capacità di qualificare l’area per quello che è e potrà essere, non per quello che era fino a ieri.

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