Rubriche | 10 Giugno 2020 | Roma&Dintorni

Si fa presto a dire tradizione. L’esempio (da studiare) della Trattoria del Cimino a Caprarola

Il nome completo, è bene specificarlo, è “Trattoria del Cimino da Colombo dal 1940” e inquadra già meglio la storia che voglio raccontarvi. Perché di trattorie che possono vantare una storia così lunga cominciano ad essercene sempre meno in giro. Parliamo di almeno 80 anni di attività, quattro generazioni passate tra i tavoli, un legame fortissimo con la tradizione ma… Ma non basta, non è più sufficiente oggi (e forse non lo è mai stato) poter vantare una lunga storia per dirsi grandi ristoratori. E a Caprarola sebbene i locali siamo rimasti gli stessi, le persone invece sono cresciute, non dimenticando gli insegnamenti dei fondatori ma allo stesso tempo aumentando le loro conoscenze. Qui sta il punto, la ristorazione italiana – così come la produzione vitivinicola quella agroalimentare in genere – deve saper unire tradizione e formazione, studi e approfondimenti. Non per stravolgere il passato ma, piuttosto, per interpretarlo meglio, conservando la cura per i dettagli e per le materie prime ad esempio, pur essendo consapevoli di come si possono innovare per esempio le tecniche di cucina. Che poi, in alcuni casi, si tratta spesso di tornare agli antichi sistemi, come è evidente con l’attuale ritorno alle lunghe cotture, che non è altro se non quello che facevano le nostre nonne con le cucine economiche a casa, dove le pentole rimanevano lì per ora, inondando la casa di profumi inebrianti.

Ma perché questa lunga introduzione? Perché di posti dove si mangia bene in Italia ce ne sono tanti per fortuna, ma di ristoranti con una storia lunga, tradizioni da raccontare, tanta bellezza intorno e – importante – capacità di innovare, ce ne sono tutto sommato un po’ meno. Uno di questi è appunto la “Trattoria del Cimino da Colombo dal 1940”, in pieno centro a Caprarola, cittadina selezionata nel circuito nazionale de “I Borghi più belli d’Italia”. Qui, in una delle costruzioni più antiche della città, il trecentesco Palazzo Riario (dove fu installato il primo mulino a vapore chiamato Progresso), la signora Giuditta apre un punto di ritrovo che conteneva sia la fraschetta, sia l’osteria, sia lo spazio sociale per una partita a carte. Siamo d’altronde di fronte al Duomo di San Michele Arcangelo, che si affaccia sulla storica piazza del Vignola, e a pochi passi dal maestoso e splendido Palazzo Farnese. In realtà oltre che oste, Giuditta è anche una grande pasticcera, con due cavalli di battaglia che sono stati tramandati fino alle nuove generazioni: i “Tozzetti di Giuditta 1940” (una versione con nocciole e spezie varie che non li fa assomigliare né ai classici con il cioccolato né ai cantucci) e gli “Amaretti di Giuditta 1940” (nocciole e mandorle amare con base meringa).

Negli anni l’attività si è consolidata, oltre alla fama di ottima pasticceria secca estesa a tutta la Tuscia, prende forma l’attività di ristorazione vera e propria. Entrano tra i tavoli le figlie di Giuditta, in particolare Angela, da tutti chiamata Angioletta, che insieme a suo marito Bruno prende le redini di quella che è ormai a tutti gli effetti una trattoria.

Colombo è il figlio di Angioletta che si dedica all’attività di famiglia, siamo ormai ai giorni nostri, e mentre lui gestisce la sala, come si dice oggi, in cucina a mantenere viva la tradizione arriva sua moglie Maria Assunta Stacchiotti. È in questo momento della storia che la nostra premessa prende senso, perché pur senza perdere il contatto con la tradizione Maria Assunta non si improvvisa cuoca ma studia da chef. In pratica dopo aver respirato e assorbito dal marito Colombo tutta la tradizione di famiglia, va a perfezionare la sua tecnica e le sue conoscenze con i corsi di cucina tenuti da chef come Lucio Pompili e Anthony Genovese. Ecco come la tradizione si mantiene al meglio, aumentando la formazione, senza stravolgere il tesoro di conoscenze, gusti e profumi messo insieme in decine di anni di ristorazione e tre generazioni di osti.

Ma non si era detto quattro generazioni? Sì, perché il figlio di Colombo e Maria Assunta, il giovane Samuele Calistri, ha aggiunto un altro pezzo importante nel solco della tradizione unita alla formazione, consolidata la parte gastronomica è ora di ampliare gli orizzonti della cantina. A trent’anni appena compiuti Samuele ha già un curriculum di altissimo livello nella sommellerie internazionale, ha lavorato in ristoranti stellati di Italia, Francia, Svizzera, Gran Bretagna e Germania; ha acquisito innumerevoli titoli (tra cui quello di Sake Sommelier e il Diploma WSET 4° livello) e partecipato a diversi concorsi, classificandosi secondo nel 2015 allo Swiss Ambassador of Champagne 2015 e primo al Ruinart Sommelier Challenge 2017, sempre in Svizzera. Grazie alle sue idee, messe in pratica tra un viaggio e l’altro, la “Trattoria del Cimino da Colombo dal 1040” diventa anche una meta ambita per gli appassionati di vino. Tanto che oltre ai vari riconoscimenti delle guide gastronomiche (selezionato da Michelin, Gambero Rosso, Slow Food, Mangiarozzo, Touring Club, L’Espresso) arrivano anche quelli dedicati alla cantina, dal più locale come “La Tuscia del Vino” di Carlo Zucchetti al più internazionale, ovvero il premio “Wine Spectator Restaurant Awards” per la prestigiosa e curata selezione di vini. Che poi chiamarla “carta dei vini” è riduttivo, Samuele infatti grazie alle sue esperienze all’estero ha una visione moderna e ampia, nasce così il progetto “Native Grapes by Samuele Calistri”, ovvero l’Enoteca Wine Club della Trattoria del Cimino, più di 200 etichette con referenze del territorio, nazionali e internazionali, disponibili anche per l’asporto come un’enoteca classica. E non finisce qui, nasce nell’ultimo anno anche “La Fraschetta”, cucina e vino in stile informale e veloce, quasi a voler tornare ai tempi di Giuditta per un “ritorno al futuro” dove si può sedersi e mangiare anche solo un supplì al telefono o una pizzetta fritta, un tagliere di salumi volendo, tutto abbinato a un calice di vino a scelta sulla decina di etichette in rotazione. Allo studio c’è poi lo spazio “Giuditta dal 1940”, dove sarà possibile anche comprare le materie prima utilizzate nel ristorante, spaziando da Presidi Slow Food a prodotti a Marchio Tuscia, quindi oltre al vino anche olio, cioccolate spalmabili, mostarde e la famosa pasticceria secca tramandata da generazioni.

Ovviamente non è stato facile affrontare i mesi di chiusura neanche per una struttura con basi così solide, ma non è mancata la voglia di reinventarsi, per esempio realizzando un servizio di consegne a domicilio nella provincia di Viterbo (per ora). Si rinnova quindi la capacità do unire tradizione e innovazione, grande attenzione nella scelta delle materie prime e continua voglia di arricchire il proprio bagaglio di conoscenze. Per metterlo al servizio di tutti i clienti, che stanno fortunatamente cominciando a tornare…

2 risposte a “Si fa presto a dire tradizione. L’esempio (da studiare) della Trattoria del Cimino a Caprarola”

  1. […] ristorante di Caprarola con quasi un secolo storia alle spalle (della quale avevamo già parlato qui e qui). Samuele Calistri, che sta sempre più orientando l’offerta prendendo le redini del […]

  2. […] cucina ho già detto molto in un’altra occasione, ora vorrei concentrarmi su Samuele e il ruolo del vino nell’offerta della trattoria, ma per […]