Blog | 27 Dicembre 2016 | Fabio Ciarla

Galloni e D’Agata parlano di giornalismo digitale, giovani e fallimento / Collisioni 2016-Capitolo 3

Siamo del secondo capitolo del racconto di un solo pomeriggio, ma evidentemente molto interessante, passato a Collisioni nell’enoteca di Barolo insieme ad Antonio Galloni e Ian D’Agata. Due personaggi del vino di livello internazionale, che però hanno apportato al festival piemontese anche qualcosa di più rispetto all’ambito di riferimento. Non solo vino quindi, per il quale rimando alla puntata precedente, ma anche tanto altro, con una specifica attenzione verso i giovani e le nuove tecnologie, con un insegnamento importante: fallire, almeno una volta nella vita, può essere utile. Vediamo nel dettaglio di cosa parliamo, come per il primo post in corsivo ci saranno i commenti del sottoscritto.

LA DOMANDA: Molti sostengono che con il web la figura del giornalista è stata sminuita, lei come è riuscito a mantenere la sua credibilità?
GALLONI: Una domanda fantastica, in effetti la figura del giornalista si è impoverita negli ultimi anni e non per il web, ma perché la gente non è più disposta a pagare per il nostro lavoro e questo mi fa arrabbiare. Fenomeni simili sono avvenuti anche in altri settori, per esempio i musicisti oggi non guadagnano più sui dischi ma sui tour, questo significa che bisogna modificare l’approccio e noi cerchiamo di farlo realizzando prodotti diversi e guardandoci intorno. Nel nuovo mondo dell’informazione bisogna diventare imprenditori e sono molto preoccupato per i giovani, ecco perché abbiamo istituito una borsa di studio per giovani giornalisti Under 30. Comunque è una strada difficile, ci vuole molto lavoro e tanta fortuna. Bisogna diventare esperti, metterci molta passione e vedere dove ci sono opportunità. Io sono stato fortunato perché ho trovato le opportunità, poi però le ho sapute anche sfruttate. Prima di tutto comunque è importante diventare esperti, specializzarsi in qualcosa che interessa davvero.
D’AGATA: Condivido le parole di Antonio, anche io ho infatti un mio progetto per i giovani, ma non è che siamo generosi e basta, ci aspettiamo infatti che i giovani si impegnino per dare qualcosa in cambio di queste opportunità. I giovani bravi che lavorano duro troveranno sempre qualcuno che li aiuterà
Posso confermare in prima persona l’impegno di Ian D’Agata per i giovani, negli eventi che lo vedono protagonista c’è sempre quel misto di personaggi che non trovi da nessun’altra parte (almeno in Italia). Ci sono sempre i big, perché quello è il livello, ma anche una nutrita presenza di giovani di diversa estrazione. A Collisioni, per il Progetto Vino, tra gli esperti ci sono diversi trentenni e nella stessa organizzazione ampie responsabilità sono affidate a ragazzi anche più giovani. Questo è il modo per crescere, tutti. Anche il critico rinomato e di altissimo livello può imparare qualcosa, o magari anche solo ricordarlo, stando a contatto qualche giorno con un degustatore giovane con tanta voglia di fare. 
DOMANDA: Mai pentito di aver lasciato The Wine Advocate?
GALLONI: No, non mi sono mai pentito. È stato difficile ma semplice. La cosa peggiore nella vita è il rammarico e a volte bisogna anche rischiare, si dice che la fortuna aiuta gli audaci. C’è stata un po’ di tensione all’inizio, ma poi siamo stati anche fortunati… Me lo sentivo, i miei genitori e mia moglie mi hanno supportato in questo percorso. D’altronde da solo nella vita non fai nulla, trovi ispirazione nelle persone che hai intorno. Avevo l’appoggio emotivo dei miei genitori e di mia moglie e soprattutto negli Stati Uniti il fallire non è visto come una cosa negativa, in Italia invece è tutto diverso. A volte devi fallire, altrimenti significa che non stai lavorando abbastanza duro. Il fallimento è una cosa buona se impari. Mi spingo anche oltre e dico che voglio una cultura del fallimento, per provare cose senza paura anche se a volte non andrà bene. Certo, in questi tentativi non devi mettere in discussione come ti comporti con le persone, la correttezza.
Credere e chiedere una “cultura del fallimento” è forte, ma la spiegazione supporta – a mio parere – ampiamente l’elemento di rottura che porta con sé. Voglio dire, forse l’essere ancorati alla paura di fallire è cosa ben peggiore del tentativo andato male. Quando non si rischia non c’è crescita. Mentre la “cultura del fallito”, se possiamo definire così l’approccio italiano o forse mediterraneo, ci incatena a una condizione generale piuttosto che a un singolo stato evolutivo. Aver fallito un impresa non fa di noi dei falliti quanto piuttosto persone più forti e capacità di prima, se siamo capaci di capire dove come abbiamo sbagliato. Stiamo andando a parlare dei massimi sistemi, ma i concetti ci sono tutti, compreso il richiamo all’istinto e ai valori importanti della famiglia e del nostro essere “animali sociali”. Insomma vino ma non solo, d’altronde il Festival Collisioni è da sempre proprio questo, uno scontro vivificante tra culture ed esperienze diverse.
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